Categoria: me

  • Alta Fedeltà

    Top 5 di cose che farò appena tutto questo sarà passato e torneremo alla normalità (quale sarà questa normalità non lo so, lo scopriremo):

    5. Andare al bar a fare colazione
    4. Fare lunghissime passeggiate e perdermi in giro
    3. Andare a un concerto
    2. Prendere un treno e andare in un’altra città
    1. Abbracciare e baciare le persone a cui voglio bene

    (Sì, ieri ho iniziato a vedere la serie di Alta Fedeltà e adesso sono nella fase scrivere Top 5 sulla qualunque, e ho pure voglia di rileggere il libro)

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  • La scatola

    La scatola

    La scatola dei ricordi è quella scatola che di norma sta chiusa in qualche posto lontano, in un ripiano nascosto, dentro un armadio chiuso, ma che spunta fuori quando pulisci, quando decidi di riordinare, quando traslochi.

    Dentro ci sono in media, non una, non due, ma diciamo almeno tre vite passate. E spuntano fuori degli oggetti apparentemente inutili: una forchetta di plastica trasparente di un picnic di 10 fa, biglietti scritti fitti, cartoline, fototessere, polaroid, disegni, braccialetti rotti, fiori secchi, sassi, articoli di giornale ritagliati, biglietti di concerti, di mostre, di autobus, treni, aerei, traghetti.

    La scatola è piena, per chiuderla devo spingere il coperchio forte e usare del nastro adesivo. Adesso la metto qua, accanto ai quadri che ho staccato dal muro, vicino ai libri e ai vestiti da mettere da qualche parte per poterli portare via. Le faccio prendere un po’ d’aria prima di spostarla in un altro armadio, in un’altra casa, in un’altra città; prima di riempirne altre e di riaprirle quando pulirò, riordinerò o traslocherò, alla faccia di Marie Kondo.

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  • Paperboy

    Paperboy per NES – Come mi piaceva giocarci

    Oggi sono entrato in edicola. Era parecchio tempo che non lo facevo. Ho comprato un quotidiano di carta, anche questa cosa era parecchio tempo che non la facevo, sicuramente mesi, forse anni. E lì, mentre prendevo la mia copia sottobraccio mi sono ricordato di un tempo tanti anni fa in cui per me il sabato e la domenica mattina era uscire di casa e andare in edicola. Comprare almeno due quotidiani, a volte tre; girovagare per l’edicola del paese, sfogliare le riviste, i fumetti, scegliere cosa comprare, chiedere se era uscito il nuovo numero di Dylan Dog o Nathan Never o altro.

    Ci andavo in bicicletta prima, spesso, probabilmente quasi tutti i giorni, ma i giornali erano per lo più cosa del sabato e della domenica, gli altri giorni erano fumetti, riviste, figurine. Poi ci sarò andato in motorino sicuramente per un periodo, ma più di rado, che già frequentavo meno il paese, ma il fine settimana sicuro che ci andavo. Mi ci sarò pure fermato in macchina lì a fianco, magari lasciando la macchina con le quattro frecce e facendo veloce. E poi ho smesso, chissà come mai? Internet probabilmente, leggere i giornali online, trovare meno stimoli in quei fogli di carta con le notizie del giorno prima.

    L’edicola vendeva anche cartoleria e ninnoli vari, dai casalinghi alle brutte cornici d’argento; a un certo punto misero pure il videonoleggio. Quando ci sono passato davanti solo un paio di settimane fa, lì in mezzo al paese lungo la via principale, ho visto quel negozio chiuso, vuoto. È così da mesi, forse anni, che in fondo io quant’è che non ci entravo prima che chiudesse? E l’unica edicola rimasta adesso in paese è un bugigattolo piccolo, che fa tristezza solo a passarci davanti, con le riviste con le copertine sbiadite dal troppo attendere che qualcuno le compri.

    Oggi sono entrato in edicola. Ho sfogliato qualche rivista, guardato le ultime uscite dei fumetti, comprato un quotidiano di carta e mi è piaciuto.

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  • Non si sa dove si va, ma ci si va*

    *Luciano Bianciardi

    Tanto queste cose servono solo a poter avere foto ridicole da condividere, no?

    Martedì ho archiviato questi ultimi cinque anni di vita. Devo ammettere che iniziavano a pesare; erano un bel carico, di quelli che poi magari ti ci abitui pure, ma come ti togli il peso dalla schiena ti sembra di volare. 

    Li ho impacchettati bene in 135 pagine, li ho chiusi con 30 slide, trasportati in mezz’ora di presentazione, c’è stato bisogno di discuterne un po’ per capire se davvero fossi convinto a lasciarli lì. Mi hanno fatto indossare una toga e un buffo cappello per salutarli e poter andare avanti. Quei riti che dicono prima era lì, adesso sei di qua, benvenuto!

    E adesso? E adesso non si sa dove si va, ma ci si va; che tanto ora sono leggerissimo e si può andar lontano senza preoccuparsi troppo. 

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  • Caro diario

    Domenica sera sono andato a vedere Ready Player One (andatelo a vedere e leggete il libro!), nel film James Halliday, il “genio” informatico che ha inventato la piattaforma Oasis dove l’umanità si è riversata in massa per scappare dal logorio della vita iper-moderna, ha tenuto un dettagliato  diario della sua vita che ha reso disponibile alla sua morte come indizio per risolvere la caccia al tesoro al centro del film.

    Se in passato questo blog è stato anche un diario personale, un diario pubblico, oggi mi rendo conto che mi viene più difficile usarlo così, anche per questo motivo negli ultimi anni ho iniziato a tenere un diario personale privato come pratica più o meno giornaliera. Per come la pratico io adesso, è una scrittura privata, con pochi fronzoli e buttata là come mi viene al momento. Brevi appunti giornalieri e poi magari pagine più lunghe di tanto in tanto quando c’è qualcosa che mi ronza in testa da provare a rendere più chiaro. Mi è capitato di sponsorizzare tanto con amici e conoscenti la pratica del diario come forma di riflessione, di auto-coscienza, un (ri)costruire il sé.

    Ieri mi è capitato di veder passare un tweet con un link a questo post dal titolo “The art of the diary” dove oltre a provare a discutere lo scopo di un diario. Ci sono esperienze come quella presentata nel post del Great Diary Project in Inghilterra o come il meraviglioso Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano (AR) con il suo museo che mi piacerebbe proprio visitare, che cercano di raccogliere questi frammenti personali, vecchi diari che messi insieme possono ricostruire non solo un sé individuali, ma anche un’identità collettiva. Non lo so se i miei noiosi diari saranno mai letti da qualcuno oltre a me, se finiranno al macero, o se saranno la base di una caccia al tesoro miliardaria, intanto continuo a scrivere, anche solo per ricordarmi di quella giornata di sole e di quel bacio dato, di quella canzone che mi era entrata in testa e della rabbia di quella volta.

    Tutto questo per dire che ancora non lo so cosa vi racconterò qua sopra, ma che intanto pure voi dovreste iniziare a scrivere qualcosa.

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  • Dove eravamo rimasti?

    Un reperto di un’altra era: Smoccolo, il mio nano che per anni è stato l’header di questo blog.

    Faccio mio l’appello della Signorina Lave per il ritorno dei blog personali. Quei posti dove un tempo le persone perdevano 5 minuti per raccontare un pezzo di sé, storie, vite. Poi ci siamo presi troppo sul serio, sono arrivati i social, i 140 caratteri, l’immediatezza e i giardini murati costruiti da Zuckerberg e gli altri. Niente di male sia chiaro, mi diverto un sacco da anni tra la decina di social network che frequento, però il primo amore non si può scordare.

    Nel 2004 avevo 18 anni non ancora compiuti, in 14 anni questo blog è cresciuto con me, mi ha accompagnato in città diverse, in scelte difficili, in speranze e sogni. Da qua ho conosciuto un sacco di persone, ho fatto amicizia, ho viaggiato e trovato cose belle per lo più.  All’inizio, nel 2004 era su Splinder (mancarone pure 6 anni dopo la chiusura), come tanti altri in Italia in quegli anni. Dopo qualche anno si trasferisce in un posto tutto suo, e l’anno scorso arriva qua, a un indirizzo che dice tutto.

    Lo ammetto, sono stato pigro, nel corso degli ultimi anni ci sono state molte volte in cui mi sono detto:_”su questo ci scrivo un post!”_, poi finiva che invece no. Avevo già pronto un primo numero di una possibile newsletter, ma non l’ho mai aperta, mi sembrava di tradire un po’ questo posto qua. E voi miei venticinque (magari) lettori direte “eh ma chi ce lo dice che non ci deludi di nuovo, scrivi un post l’anno per non sentirti in colpa e stop?”. Grazie della domanda, purtroppo non vi posso assicurare niente, ma forse è il momento giusto per togliere le ragnatele dal template, dare una rinfrescata alla colonna di destra, riaprire i commenti (che poi i commenti su un blog ormai solo i nostalgici).

    Se ci conosciamo già, sapete cosa potete aspettarvi, se capitate qua per la prima volta benvenuti 🙂

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  • Tirarla in lungo

    Io sono del partito che l’anno nuovo inizia veramente dopo l’Epifania, ma quale primo Gennaio. Quest’anno poi col ponte l’anno nuovo inizia di lunedì, giorno perfetto per disattendere tutti i buoni propositi accumulati in questi giorni di feste.
    La mia bella lista è pronta e scritta in bella calligrafia. Alcuni punti sono identici a quelli dell’anno prima, dell’anno prima ancora, e così via, che potremmo arrivare all’inizio dei tempi (miei). Altri sono nuovi, scintillanti, e che portano con loro una prospettiva futura, un mondo nuovo e lontano 365 giorni (o forse meno).
    Devo solo smetterla di tirarla a lungo e incominciare, da lunedì però.

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  • Disarmiamoci

    Dopo Nizza avevo paura, ho paura: di una reazione di pancia, di chiusura, di odio e di escalation, di Trump, Salvini e LePen, ma anche di Alfano e Renzi, delle risposte che riguardano “più sicurezza” e delle troppe poche domande fatte, dei militari in giro e nelle stazioni (e delle stazioni trasformate in aeroporti, ma quella più che paura è schifo) come fossimo in guerra. Più che degli attentati di per sé, ho paura di quello che succede dopo, dell’alzare l’asticella ogni volta di più, delle leggi speciali e degli stati di emergenza, dei muri e dei controlli, delle libertà da difendere che vengono limitate.

    In mezzo a tutta questa paura mi è capitato di pensare al decalogo sulla convivenza che Alex Langer scrisse ormai più di 20 anni fa. In quel momento Langer stava guardando alle atrocità di una guerra che separava famiglie e amici su confini etnici e religiosi e le sue riflessioni partivano anche dal nascere e crescere in un territorio ancora oggi diviso su crinali linguistici e culturali. Oggi è la stessa cosa, solo su scale più grandi, con divisioni più subdole e conflitti più striscianti. E lì in quelle poche righe ho ritrovato una bussola, una direzione a cui tendere, quella della convivenza pacifica e del superamento di differenze e diffidenze, quella del disarmo e della non violenza. E poi subito dopo ho letto della polizia di Aarhus in Danimarca e del suo progetto di risocializzazione dei foreign fighters che tornano dalla Siria, di come farli sentire accolti dalla comunità e non come reietti da colpevolizzare e incarcerare.

    Ed è di nuovo tutto qua, come stare insieme, costruire ponti, saltare muri ed esplorare frontiere, come non avere paura insieme, ma per farlo dobbiamo partire dal disarmare: le nostre paure e le risposte che mettiamo in atto, i nostri gesti e le parole, le mani e i cuori.

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  • I viaggi di ritorno

    Non so se ci avete fatto mai caso, ma i viaggi di ritorno sono sempre più veloci di quelli d’andata. Non importa la destinazione o il mezzo di trasporto, fateci caso, l’andata è sempre lunghissima. Siete lì, tutti presi a non vedere l’ora di arrivare, perché ci sono sempre ottimi motivi per andare: un viaggio, una riunione, un bacio. E mentre pensi a tutte queste cose guardi l’orologio carico di aspettative e niente, non si muove mai, i secondi diventano minuti, i minuti ore. I motivi per tornare invece non sono mai così convincenti. Il ritorno è sempre fatto di sospiri e rimpianti, per quella cosa non vista, per quella cosa non detta, per quel bacio non dato. E così perso tra quei momenti mancati *puf* il ritorno passa in un attimo e ti ritrovi ancora spaesato a cercare di rimetterti in pari con quello che avevi lasciato da fare. Però alla fine l’ansia del ritorno è la miglior motivazione per partire di nuovo.

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  • Velocità

    A piedi, camminando veloce, un uomo percorre circa 5 km all’ora. Se devi fare 20 km ci metti 4 ore a passo svelto. Una giornata di cammino sono 40 km. Io fino a 10 anni fa non ci avevo mai pensato a questa cosa, poi ho camminato per qualche centinaio di chilometri fino a Santiago di Compostela. Una delle cose che mi ha insegnato quel viaggio è stata la velocità, dover calcolare quanto posso percorrere in un giorno, una settimana, un mese. Sarà per questo, ma da allora ho sempre un senso di smarrimento quando mi succede come ieri mattina, di svegliarmi nel mio letto a casa e di essere per merenda a Stoccolma, senza nessuno sforzo. Direte voi questa è la modernità, quella cosa che ti fa spostare da un punto all’altro della terra in poco tempo e senza fatica, che ti fa spedire bit in giro per il mondo istantaneamente, che ti fa arrivare a lavoro tutti i giorni senza dover fare 20 km a piedi ad andare e 20 km a tornare. Però ho scoperto che a me tutta questa velocità mica mi piace sempre, che preferisco i treni agli aerei, i regionali all’alta velocità, camminare invece di correre. È un mondo difficile per noi che vogliamo andare lenti.

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