La sociologia (volente o nolente, deliberatamente o automaticamente, come vado ripetendo) è costretta a minare le fondamenta su cui poggiano le credenze popolari nella «necessità» e nella «naturalità» delle cose, delle azioni, delle tendenze e dei processi. Smaschera le irrazionalità che hanno contribuito alla loro creazione e perduranza. Rivela le contingenze dietro le regole e le norme apparenti, e le alternative che si affollano attorno alla presunta unica possibilità (vale a dire, quella scelta a spese di tutte le altre). In conclusione il métier della sociologia è, per prendere a prestito l’allegoria di Milan Kundera, «strappare i sipari» che nascondono le realtà alla vista coprendole con le loro rappresentazioni fraudolente.
C’è sempre un pericolo, naturalmente, come Theodor Adorno continuava a ricordarci: quello che, perseguendo la parsimonia e l’eleganza dei suoi resoconti (uno dei criteri guida della perfezione scientifica), la teorizzazione sociologica possa attribuire alle realtà sociali una quota di «razionalità» molto maggiore di quella che di fatto possiedono; notiamo e ricordiamo che la «razionalità del mondo» è la versione moderna (e secolare) della teodicea. Il pericolo è indubbiamente lì, è difficile resistere a una simile lusinga, mentre la tentazione di cedervi è parte integrante della logica dell’impegno accademico […]
Zygmunt Bauman, “La scienza della libertà – A cosa serve la sociologia?”